La storia della Comunità

La lunga permanenza ebraica a Ferrara è attestata già nel 1227 dal lascito testamentario di un gentile a Sabatinus iudeus, Sabatino ebreo. La vitalità culturale del gruppo ferrarese nel XIII è evidente nell’attività di rabbini, glossatori, talmudisti, e scriba. Nel 1239 la Ferrara ebraica poté assicurare già un bet-din, tribunale rabbinico, che prevede un collegio di almeno tre esperti di legge mosaica. Risale al 1275 il primo atto pubblico in cui si stabilisce il patrocinio del Giudice e del Vicario del Podestà di Ferrara nei confronti degli ebrei. Sotto la signoria degli Estensi (nel 774 i Franchi, che avevano sconfitto i Longobardi, cedettero il territorio ferrarese al papato che, più tardi, lo concessero in feudo agli Estensi nel 1260 fino al 1597; il ducato fu conferimento imperiale dal 1471) si insediarono in città vari gruppi di ebrei provenienti da diverse zone: dall’Italia centro-meridionale (di rito italiano), dal centro Europa (di rito askenazita), più tardi da Spagna e Portogallo (di rito sefardita). Dall’inizio del governo di Casa d’Este, incominciò un periodo di stabilità: gli ebrei godettero dell’oculato opportunismo dei Signori di Ferrara, che consentì loro di ottenere un benessere generalizzato, effetto dei banchi di prestito collocati in diverse loca­lità del territorio e che servirono i governanti stessi. Non sempre la vita fu semplice: nel 1437 il marchese Borso impose agli ebrei le spese di livellamento e impianto dei pioppi nella via che dal castello estense conduce alla Porta degli Angeli, e spesso il Tribunale dell’Inquisizione si “occupò” dei convertiti pentiti, degli usurai e chi aveva istituito una sinagoga senza autorizzazione.
Ad inizio Trecento, quasi venti famiglie erano residenti nella contrada di Centoversuri e alla fine del secolo molti ebrei si stabilirono nella zona delle vie Sabbioni (ora via Mazzini), Vignatagliata e Gattamarcia (attuale via Vittoria). Nel corso del Quattrocento aumentò la presenza degli ebrei che erano dediti a varie attività: erano stracciaroli, piccoli commercianti, merciai, mantellari, ricamatori, tipografi, rilegatori di libri, medici e proprietari di banchi, come cambiavalute o prestatori su pegno. Intanto, agli italiani si affiancarono ebrei “tedeschi”, gli askenaziti, i quali si integrarono usufruendo delle stesse concessioni e limitazioni che erano già state attribuite ai ‘locali’. Lo status di cittadino ferrarese, condizione per divenire proprietario di un edificio, fu concesso in via eccezionale ai maggiori prestatori, che poterono godere di altri privilegi: l’esenzione dall’indossare il ‘segno’ («la O in lo petto di giallo cusito»), il diritto ad essere giudicati dal solo Giudice dei Savi in qualsiasi controversia, l’autorizzazione a portare armi per difesa e ad allestire oratori, seppure per uso privato.
Nel 1485, (mes)ser Mele da Roma istituì la fondazione della sinagoga pubblica, acquistata allo scopo di cederla in perpetuo agli ebrei di Ferrara; era collocata nello stesso fabbricato del banco dei Sabbioni: anche oggi l’edificio è sede dell’attuale Comunità.
Nel 1492 i sovrani spagnoli cacciarono gli ebrei che non vollero convertirsi e gli esuli cercarono di raggiungere le coste italiane o turche: il duca Ercole I invitò a Ferrara 21 famiglie di ebrei spagnoli bloccati a Genova, che non aveva concesso loro lo sbarco. Anche lo stesso duca, nel 1496, impose a tutti gli ebrei di indossare il ‘segno’, l’anno seguente accolse in città gli esuli della diaspora portoghese, grazie ai quali il secolo seguente la presenza ebraica raggiunse le 2.000 persone circa su una popolazione di 32.000 abitanti.
Solo a metà Cinquecento, l’accresciuto numero di ebrei spagnoli e portoghesi ed askenaziti porterà alla realizzazione delle sinagoghe per i rispettivi riti.
Molti ebrei portoghesi, convertiti a forza dal re del Portogallo, avevano continuato in segreto le usanze ebraiche: l’Inquisizione li definiva “marrani” e li condannava al rogo con l’accusa di “giudaizzare”: chi riuscì fuggì dalla penisola iberica seguendo il percorso: Anversa, Venezia e/o Ferrara, Ancona, Istanbul. Oltre ad essere pericolosa, la fuga era costosissima e molti ebrei riuscirono a mettersi in salvo solo grazie all’aiuto di correligionari facoltosi. Gli Estensi appoggiarono questo transito: Ferrara divenne un centro internazionale dove soggiornò dal 1549 al 1551 la Señora Beatriz de Luna alias Gracia Nasi Mendes, che finanziò e sostenne la diaspora portoghese verso l’impero Ottomano. Grazie all’aiuto di questa donna eccezionale, nel 1553 Avraham Usque e Yom Tov Athias tradussero in giudeo-spagnolo e stamparono l’intera Bibbia: una versione è dedicata a Gracia Nasi Mendes e un’altra a Ercole II che, con suoi decreti, permise ai “marrani” di tornare liberamente all’Ebraismo.
Fiorirono a Ferrara stamperie, sinagoghe, scuole; Amato Lusitano non solo poté praticare l’arte medica ma anche, nel 1541, insegnare nell’Ateneo medicina, botanica e anatomia. Nel 1554 si tenne il Congresso Rabbinico Italiano e poco dopo il duca acconsentì all’istituzione di un’Accademia di Studi Ebraici. Negli anni Cinquanta, nacque l’Università (cioè la Comunità) Spagnola – Portoghese e, negli anni Settanta, quella Italiana – Tedesca.
Non mancarono episodi sporadici di allineamento estense alle richieste papali: la disputa pubblica su temi religiosi cui fu costretto l’erudito Abram Farissol, il rinnovo ciclico dell’editto che ordinava di indossare il ‘segno’, il rogo dei Talmud nel 1553, l’arresto e la traduzione a Roma di Gabriel Henriques alias Josef Saralvo che fu condannato a morte dall’Inquisizione romana nel 1583.
Al terremoto che colpì Ferrara nel 1570-71 seguì una rinnovata partecipazione ebraica alla vita economica e produttiva cittadina: infatti, gli ebrei ferraresi risposero numerosi alla richiesta del duca Alfonso I d’Este che gli sfollati rientrassero in città. Così restaurarono i danni tanto delle dieci sinagoghe quanto delle proprie abitazioni e ripresero l’import-export, i commerci, le produzioni artigianali.
Nel 1597 si estinse il ramo ferrarese degli Estensi (che si ritirarono a Modena) e Ferrara ritornò al papato: questo segnò il discriminante fra l’attività culturale ed economica di Ferrara capitale del ducato estense e il presidio militare al confine dello Stato pontificio. Anche il milieu ebraico in tutti i suoi aspetti fu coinvolto nel veloce chiudersi in se stessa della città: con la devoluzione alla Santa Sede, le progressive limitazioni della libertà degli ebrei ferraresi, ridotti a circa 1.700, si susseguirono rapidamente fino all’editto del 1624 che istituì il ghetto, la cui realizzazione fu compiuta nel giro di 3 anni con il trasferimento forzato di alcune centinaia di famiglie nella piccola area prescelta. Fu consentita una sola sinagoga per ogni rito (ne furono chiuse sette) e furono vietati i funerali pubblici. I cinque portoni del ghetto che si chiudevano la sera non furono una barriera netta: di giorno si poteva entrare e uscire, vendere e comprare e viaggiatori, studiosi e mercanti ebrei continuarono a passare per Ferrara provenienti da ghetti di altre città.
Nel 1629 fu proibito ai medici ebrei di assistere infermi cristiani, e a balie e servitori cristiani di lavorare per ebrei. Cinquant’anni dopo, il cardinale Pio istituì l’obbligo per un terzo degli uomini di assistere ogni sabato alle prediche coatte, in quanto funzioni preposte alla conversione, dapprima nella ex Cappella Ducale, poi all’Oratorio di San Crispino, contiguo al recinto degli Hebrei.
La situazione finanziaria divenne grave, ma non tale da annichilire lo spirito della comunità: a dispetto del ghetto, Sei e Settecento si segnalano come un periodo di intensa attività nell’ambito degli studi che vide personalità rabbiniche conosciute e riconosciute in tutto il mondo ebraico e non, primo fra tutti il rabbino, medico e filosofo di fama mondiale Isaac Lampronti, autore di un’enciclopedia talmudica in 20 volumi. È anche da segnalare la decisione, presa nel 1748, di prolungare la scuola ebraica obbligatoria fino a 16 anni. Intanto i cardinali legati che governavano la città si accanirono perfino contro le lapidi del cimitero ebraico, molte delle quali vennero distrutte o riusate.
Insieme alle armate napoleoniche giunse per gli ebrei italiani l’equiparazione giuridica assicurata dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino: nel giugno 1796, la comunità ferrarese fu la prima liberata delle Legazioni Pontificie, da subito partecipe della gestione pubblica con un impegno culturale quanto economico rivolto verso la città intera e non più al solo ghetto. Purtroppo, ogni restaurazione si esplicita con risultati più grevi della condizione precedente: quando Leone XII rientrò a Roma, gli ebrei dello Stato Pontificio furono di nuovo segregati in ghetto e, nel 1826, la Comunità di Ferrara fu anche obbligata al pagamento della spesa per i nuovi portoni.
Con la 2° Guerra di Indipendenza, nel 1859, gli ebrei ferraresi divennero cittadini e parteciparono attivamente alla vita politica ed economica della città.
All’inizio del ‘900 la comunità contava circa 1.300 iscritti; fra questi alcuni si distinsero per le loro attività: Ciro Contini, architetto e urbanista; Vittore Veneziani, direttore dei cori scaligeri; Felice Ravenna, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Durante la Prima Guerra Mondiale, gli ebrei ferraresi combatterono come tutti gli altri italiani, spesso come volontari.
La componente ebraica si integrò completamente nella società ferrarese. Dopo l’avvento del regime fascista, al quale avevano aderito anche alcuni ebrei ferraresi, nessuno immaginava, nonostante le violenze e le limitazioni delle libertà politiche, che il governo italiano potesse colpire i cittadini ebrei solo per il loro essere ebrei. E invece dal 1938 iniziò la legislazione che, dapprima, emarginò e impoverì gli ebrei; poi, dal 1943, li condannò alla deportazione e alla morte. La situazione ebraica andò peggiorando anche a Ferrara e il 21 settembre 1941 i fascisti locali devastarono la Sinagoga Tedesca e l’Oratorio Fanese. Tra il 1943 e il 1945 si succedettero nuove profanazioni delle Sinagoghe Spagnola, Tedesca e Italiana. La cattura sistematica iniziò nel febbraio 1944: i primi arrestati furono rinchiusi nella Sinagoga Italiana e da lì trasferiti dalla polizia italiana al campo di Fossoli, mentre vennero razziati i tesori della Comunità, distrutti e incendiati documenti. Il 23 febbraio la Guardia di Finanza prese possesso dei locali e dei beni mobili della Comunità, e il 26 sigillò le Sinagoghe, che riapriranno nell’aprile 1945.
Nei mesi successivi del 1944 furono prelevati anche quattordici anziani dall’Ospizio e sei malati dall’Arcispedale Sant’Anna. Centocinquantasei ebrei ferraresi furono arrestati, la maggior parte fu deportata nei campi di sterminio. Solo cinque tornarono: il ricordo e i nomi dei Martiri sono riportati su due lapidi apposte sulla facciata dell’edificio che ospita gli uffici della Comunità e le Sinagoghe Italiana, Fanese e Tedesca.
Il periodo postbellico trovò la Comunità Ebraica diminuita in numero (alcuni emigrarono per lavoro e altri per pessimi ricordi di delazioni e cattiverie, altri ancora raggiunsero Israele) ma ben attiva: basti citare Giorgio Bassani e Gianfranco Rossi per la letteratura italiana, Arrigo Minerbi per la scultura, Aron di Leone Leoni per gli studi di storia sefardita, Paolo Ravenna per l’impegno civile e sociale.
Il sisma del 2012 ha pesato fortemente sul territorio ferrarese lasciando danni risanati solo in parte. Anche l’ormai numericamente piccola Comunità Ebraica di Ferrara è stata colpita con durezza, con le Sinagoghe, il Museo Ebraico e i locali comunitari lesionati e interdetti all’uso. Ancora una volta gli ebrei ferraresi hanno cercato e trovato le forze per reagire, per restaurare e rinnovare i propri spazi, che ora, a dieci anni dal terremoto, tornano a essere in parte a disposizione della cittadinanza.

a cura della Comunità Ebraica di Ferrara, 2022